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Chi sono le nuove figure professionali che fanno il welfare di comunità?

Una ricerca per capire le loro pratiche e i loro saperi - A cura di: Asta, Battistoni e Cattapan

La creazione e l’evoluzione di nuove professioni nel mondo dell’innovazione sociale e del welfare di comunità in particolare, è un fenomeno che sta trasformando il modo di operare all’interno dei servizi e delle comunità e che ormai sta richiedendo non solo riconoscimento, ma anche consolidamento.

Da questa prima considerazione sono stati realizzati approfondimenti e interviste sulle diverse figure professionali presenti all’interno di alcuni progetti sostenuti nel programma Welfare in Azione di Fondazione Cariplo; gli esiti e le riflessioni di tale lavoro di ricognizione hanno trovato sede nella ricerca “Le nuove figure professionali nel welfare di comunità. Saperi e pratiche del community management.

In questo e in successivi interventi proveremo a sintetizzare i principali contenuti della ricerca dando qualche risposta agli interrogativi che l’hanno guidata, interrogativi che le organizzazioni impegnate nei progetti sostenuti all’interno del programma Welfare in Azione devono affrontare.

Viviamo nel tempo in cui si costruiscono le nuove forme del lavoro del futuro, flessibili, agili, snelle, indirizzate a relazioni e a modalità di lavoro diverse da quelle ereditate dal secolo precedente. Meno strutturate, più sfidanti, più aperte a gestire imprevisti e a formulare risposte ad hoc.

E qui si apre una prima questione che ha guidato la ricerca: come si posizionano le nuove figure professionali del welfare rispetto ai caratteri del lavoro del futuro? La risposta già ci introduce nella formulazione di una prima cornice di senso per inquadrarle: il loro scopo è quello di creare nuovo valore, sociale e relazionale, per cercare di rispondere a quei nuovi bisogni di vulnerabilità e fragilità delle società e dei territori in cui viviamo, che sempre meno sono riconducibili ai servizi del cosiddetto primo welfare. Da ciò possiamo già tracciare un primo tratto che ci permette di riconoscerle, dato che la loro marca “esistenziale”, oltre che professionale, è che cercano di dare risposta alle comunità proprio attraverso le comunità stesse e la loro attivazione. Sono quindi professioni che si costituiscono attorno ad un perché – prima che rispetto ad un come e cosa fare – ovvero hanno come finalità il miglioramento della società attraverso la capacitazione dei soggetti (e non solo la risoluzione di problemi sociali) mediante l’attivazione di persone in difficoltà, servizi pubblici, reti locali, soggetti anche esterni al perimetro del welfare e competenze non prima utilizzate. Creano così, in tal modo, nuovi ecosistemi di attori capaci di produrre innovazione.

La prima difficoltà è riuscire a pensare percorsi con la persona e i suoi familiari, raccogliendo dei feedback dalle persone di riferimento (allenatore, amico, etc.) che non sono solo quelle che lavorano nei servizi, ma è un lavoro proprio di rete, ricostruire l’immagine della persona e del percorso su potenzialità e risorse che ha; è lavorare sui desideri della persona, mentre il lavoro dei servizi è preimpostato e scegli tra quelle proposte (Progetto L-inc).

Si tratta di un nuovo settore o ambito che si aggiunge a quello dei servizi più strutturati del primo welfare? Al contrario, come si vedrà. Il portato di queste esperienze, nonché delle figure professionali che le rendono possibili, sta proprio nella capacità di osservare uno sviluppo del welfare verso forme complesse di ri-combinazione tra servizi esistenti e nuovi servizi che coinvolgono le comunità, così come tra profili esistenti (e appartenenti anche al Pubblico, come gli assistenti sociali) e profili nuovi creati appositamente. Come il welfare di comunità ci insegna che non ci sono due welfare differenti, ma sistemi diversi chiamati ad essere connessi per rispondere meglio a bisogni sempre più complessi e sfaccettati, così queste nuove professioni insegnano che non ci sono due modi di lavorare diversi e separati (professioni tradizionali del welfare e nuovi lavori di comunità), ma evoluzioni di entrambi per saper rispondere alle sfide di innovazione.

Ma di chi stiamo dunque parlando in concreto? Chi sono, cosa fanno e come operano queste nuove figure professionali? Perché sono sempre più necessarie nel mondo del welfare? Infine: come prepararsi a sostenerle, a partire dalle loro specificità e dai contesti territoriali ed organizzativi in cui lavorano?

Iniziamo innanzitutto a dare loro qualche nome e qualche descrizione delle figure professionali che hanno caratterizzato il programma Welfare in Azione e che sono state analizzate nel corso della ricerca: local coach, network manager, care planner, community maker, lab maker, welfare community manager, educatore finanziario, coach scuola-lavoro, attivatore di comunità, agente di sviluppo lavoro, educatore territoriale, operatore di comunità. Qualche esempio, in questo e nei prossimi articoli, per entrare nel merito di cosa fanno nel loro lavoro:

  • Animatore dei laboratori di interesse di Family Like (progetto per rendere più family friendly il territorio nord della provincia di Novara): è una figura di ricerca-azione che attiva e anima i laboratori di comunità, tavoli aperti che aggregano soggetti impegnati in interventi a favore di minori e famiglie, su base territoriale. Ha come obiettivo prioritario il coinvolgimento e la partecipazione dei genitori e delle famiglie, nell’ottica di promuovere un loro ruolo attivo nell’ambito delle politiche rivolti ai minori del territorio. Agisce come guida all’inizio per poi lasciare aperto uno spazio di generatività ai gruppi.
  • Educatore territoriale del progetto L-INC (progetto che nel territorio di Cinisello Balsamo, Bresso, Cormano e Cusano Milanino aiuta le persone con disabilità ad autodeterminarsi): è il referente del progetto di vita individuale (budget di salute) della persona con disabilità, per costruire un progetto di vita che sia il più possibile aderente alle necessità e desideri della persona; condivide la valutazione con l’equipe, coadiuva il coordinatore nei rapporti con le famiglie, le altre figure professionali del territorio e la rete dei servizi e realtà associative.
  • Assistente sociale di comunità del progetto Youthlab (progetto che nel territorio di Erba vuole favorire il protagonismo giovanile): mappa le organizzazioni del territorio che si occupano di giovani, intercetta giovani attivi, costruisce gruppi di lavoro e oggetti di lavoro per includere i giovani nella vita dei Comuni coinvolti nel progetto, con particolare attenzione alla rigenerazione della stazione di Erba, luogo centrale per la produzione d politiche giovanili. In alcuni casi si tratta di operatori sociali riconvertiti ad animatori di comunità, in altri sono figure ex novo esterne al partenariato di progetto.
  • Local coach del progetto Sbrighes! (progetto che in alta Valtellina promuove nuove opportunità di protagonismo per i giovani e di collaborazione per le famiglie, aiutandole nella cura di minori e anziani): sono operatori che costruiscono progetti insieme alle comunità di riferimento o operano nei luoghi del progetto (Local Hub e Cofactoring). È una figura creata per essere coach territoriale (trasversale rispetto ad aree di competenza); si è poi trasformata evolvendo in local coach su competenza specifica (trasversale rispetto ai territori e settoriale). Accompagna, facilita e lascia autonomia al progetto consegnandolo alla comunità stessa.
  • Facilitatore di comunità del progetto Genera_azioni (progetto che nella bassa bresciana ha affrontato situazioni di vulnerabilità che hanno colpito famiglie e adolescenti): è definito un avamposto sul territorio, con buona capacità progettuale e grande autonomia nel coordinare la propria attività; è inteso anche come “organizzatore di risorse” (in cui le risorse sono le persone, le associazioni, i servizi, i “beni” di un territorio), crea relazioni tra le persone, le attiva e le connette creando collaborazioni che non ci sono state prima, avendo anche come luogo di riferimento i punti di comunità.

Una prima definizione che emerge dal ricostruire un “ritratto di famiglia” di queste professioni è riconducibile a quello che possiamo definire come “community management”. Il loro lavoro è di fatto un lavoro di e con la comunità, tanto nell’indagine dei bisogni e delle aspirazioni da soddisfare e da realizzare, quanto nell’attivazione di risorse da cui formulare soluzioni a problemi. Comunità non passive, dunque, bensì comunità come quel “terzo pilastro” di cui parla Rajan indicando un soggetto plurimo attivo nel produrre soluzioni – e da attivare. E questo implica l’altro aspetto della loro professione, ovvero la gestione (management) attraverso l’esercizio di una leadership definibile come la capacità di governare processi in tensione (ambigui, aperti, innovativi) dove si impara dalle pratiche e dalle situazioni, e in cui il lavoro assieme agli altri (in collaborazione) non è un prodotto eventuale, ma una costituente. Sono figure dotate di una leadership capacitante e attenta a ricostruire il senso di comunità, non a prendere decisioni per suo conto.

Per esempio è successo che, pensando alla riqualificazione di un parco giochi, le mamme abbiano invece proposto il progetto di un pedibus per bambini, a loro più utile: il local coach ha imparato che la soluzione ce l’aveva la comunità di beneficiari, non lui. Valorizziamo le risorse delle famiglie per creazione di micro progetti di conciliazione. All’inizio, ci immaginavamo un ruolo più operativo (da operatore sociale) e meno da facilitatore di processo comunitario; ci immaginavamo una cosa più statica, proposte definite e lineari, standardizzate e ripetibili, e un ruolo più di protagonismo del local coach ma invece non è così. Ecco, bisogna lasciare il protagonismo ad altri. Bisogna tirarsi indietro ad un certo punto, cosa che non ci eravamo immaginati (Progetto Sbrighes!).

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In breve, non sono solo “facilitatori” di processi, ma esplorano nuovi bisogni e aspirazioni, costruiscono nuove relazioni, attivano e gestiscono processi e progetti (co-progettano) o progettano loro stessi. Agiscono, e promuovono, in forme collaborative al di là delle logiche d’area tradizionali. Sono ciò che possiamo definire come “agenti di collaborazione”, il cui scopo non è solo lavorare con (e non per) le comunità, ma anche saperle costruire, poiché spesso si tratta di intrecciare quei legami e quei perché propri delle comunità cosiddette intenzionali. “Fare legami” (non a caso uno dei progetti di Welfare in Azione) può essere preso a prestito come un nome-programma di scopo per queste professioni.

Per queste loro caratteristiche, le nuove figure del welfare aprono delle sfide tanto organizzative, quanto relative agli approcci che devono consapevolmente presidiare. Vediamone alcune.

La prima sfida sta sicuramente nel loro “territorio” di lavoro, non tanto fisico, quanto di posizionamento rispetto alle organizzazioni. Laddove le professioni tradizionali rispondono a logiche organizzative strutturate operando “dentro” un servizio, queste figure di comunità trovano il loro spazio in un “tra”, cioè tra il dentro e il fuori dai servizi e tra il dentro e il fuori dalle organizzazioni di appartenenza. Sono insomma figure che attraversano le soglie, congiungendo beneficiari a servizi nell’invito a co-progettare soluzioni, o nell’invitarli a costruire progetti di vita di cui sono protagonisti. Oppure nel costruire reti tra attori locali – associazioni, organizzazioni for profit, enti pubblici – al fine di mettere a sistema risorse tacite o poco utilizzate. Ancora: attraversano la soglia degli ambiti di lavoro standardizzati per sistematizzare competenze di diversa natura, expertise precise (da educatore, da assistente sociale, da educatore finanziario, da fundraiser) con abilità del lavoro di comunità, più relazionale, attivante e aperto. In sostanza, non sono figure riconducibili a ruoli inquadrabili facilmente negli organigrammi perché nel loro DNA c’è la finalità di produrre impatti di comunità. Queste figure lavorano infatti con dei compiti, non rivestono dei ruoli – e da qui anche le difficoltà che a volte si producono nel loro inquadramento professionale e contrattuale, nonché nel loro relazionarsi alle organizzazioni (solitamente strutturate) cui appartengono.

I facilitatori .. li chiamiamo così perché non sono assistenti sociali, non sono educatori, non sono animatori, non sono bibliotecari, sono quei soggetti che svolgono attività di frontiera, di front office e anche di progettazione da backoffice. (…) Sono anche battitori liberi, presidiano più aree: quella dello sport, cultura, servizio sociale; con i ragazzi costruiscono percorsi che sono progetti ed iniziative che dialogano con una molteplicità di gruppi sociali, ma poi riescono ad interloquire anche con gli stessi assessori in termini progettuali, e sono riconosciuti (Progetto Genera_azioni).

Una seconda sfida che spetta loro è saper gestire le caratteristiche di un lavoro aperto, che ha lo scopo di produrre innovazione con le comunità. Ciò implica il ricorso ad una serie di pratiche specifiche, artigianali quasi, a partire da quella pratica strategica che è la capacità di improvvisare e gestire le diverse situazioni con risposte ad hoc. Improvvisa chi ha a che fare con ambiti rispetto cui non ci possono essere risposte precostituite (come nei servizi strutturati) o strumenti pronti; improvvisa chi si trova a non produrre da solo le risposte, ma a co-progettarle con i beneficiari o con i partner coinvolti nei progetti, passando attraverso difficoltà, cambiamenti in corso d’opera, eventuali diversità di sguardi e interessi. Deve avere l’abilità di improvvisare chi, infine, sa che una soluzione progettata va sperimentata, dunque rivista man mano e ridisegnata a bisogno. Improvvisare è quindi tanto il contrario della casualità quanto della pianificazione esaustiva ex ante: significa saper stare nell’incerto e governarlo avendo a disposizione una serie di risorse e di domande (esse stesse da costruire) da combinare nel modo migliore per mettere a frutto le potenzialità. Ciò che si chiama anche l’arte del bricolage.

Abbiamo messo in campo diverse strategie, anche per tentativi ed errori. per esempio: serata aperta alla cittadinanza, incontro con amministratori che ci hanno presentato dei ragazzi, abbiamo organizzato corsi per farci conoscere. Sulle azioni che facciamo nel nostro lavoro: rispetto all’approccio tradizionale, il lavoro di comunità è sicuramente più faticoso perché ci si deve continuamente inventare in maniera artigianale il lavoro da fare (progetto Youthlab).

A chiusura di questo primo intervento sulle nuove professioni, rilanciamo sul tema della leadership prima introdotto: quale leadership devono praticare queste figure per essere fautori di un welfare di comunità?

Quello che manca nella loro prospettiva (nelle professioni tradizionali del sociale, ndr.) è che va lasciato sempre uno spazio di generatività a chi viene coinvolto altrimenti viene solo ingaggiato per informarlo; dove siamo riusciti a fare più i facilitatori che le guide i risultati sono stati migliori” (Progetto Family like)

La risposta che ci siamo dati, è che non c’è una leadership definibile, ma che serve avere la capacità di determinare di volta in volta, in base alla situazione e all’attenzione, quale capacità di supporto o di spinta è d’aiuto alle diverse comunità per essere capacitate. A volte, quindi, queste figure agiscono da “coach”, da ponti che collegano attori e risorse in grado di produrre loro stessi le risposte di cui abbisognano. Altre – come vedremo meglio nel prossimo intervento dedicato anche ai coordinatori di gruppi di lavoro – sono chiamate ad agire più da “leader” per costruire le condizioni abilitanti alla collaborazione, con spinta maggiore sulle direzioni da intraprendere, pur evitando il verticismo direttivo – i leader, nelle comunità progettanti, non stanno mai al vertice, ma al centro o ai margini, a seconda della situazione.

Mah, vediamo che serviamo, perché i processi sono autogestiti, ma non necessariamente spontanei, e faticano nella continuità nel tempo, quindi il nostro ruolo di professionisti di creazione e mantenimento di legami potrebbe essere il carattere costante del nostro operato. E comunque è bene che alcune prestazioni professionali restino tali, basta integrarle: l’operatore che ti accompagna serve, serve il ruolo di guida, di regia, di alcuni interventi diretti, come con i giovani. È un po’ questo il nuovo modello di welfare. (Progetto Sbrighes!)

Quindi, stante queste prime definizioni e sfide di lavoro, resta da capire come declinano le loro pratiche professionali rispetto ai campi in cui intervengono, e quali sono gli strumenti con cui operano. Ovvero: come fanno a fare gli “artigiani” del welfare. Tema cui riserviamo il nostro prossimo intervento.

A cura di: Michele Asta, Francesca Battistoni, Nico Cattapan