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Community management nei processi di innovazione aperta [2/3]

Il community manager come occasione per il re-design organizzativo - A cura di: Battistoni, Cassani e Cattapan


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Nel primo articolo dedicato alla scoperta di chi è e cosa fa un community manager, abbiamo proposto di cambiare prospettiva e di osservare come lavorano queste nuove figure adottando un approccio di pratiche, più che uno per competenze. L’approccio che definiamo di “pratiche” guarda all’intelligenza collaborativa dei soggetti che interagiscono facendo qualcosa assieme per risolvere un problema comune e/o condividendo valori. Ciò è di fatto quanto viene richiesto ad un community manager nell’attività di costruzione con la comunità di riferimento di progetti innovativi. Per questo ci sembra utile ridefinire il senso della leadership che un community manager possiede partendo dalle pratiche: se l’approccio per  competenze troppo spesso orientato alla costruzione del “profilo” serve per “formare” un leader (o manager) più basato sul modello guida-seguace, è nelle pratiche che si “dà senso” alla leadership utile a innescare processi, progetti e apprendimenti delle comunità (sense-making). Indagando le pratiche, si possono trovare suggerimenti su come agire da community manager e su come è opportuno formarsi man mano.

È il lavoro stesso dei community manager ad averci suggerito questa prospettiva e quali strumenti operativi sono adatti ad un ruolo ibrido, che è sottoposto a sfide rispetto ai ruoli tradizionali dei progettisti e operatori sociali.  In questo articolo vi raccontiamo le storie e le riflessioni di due di loro, che operano nella Cooperativa Sociale Ippogrifo di Tirano, in Valtellina.

Una sperimentazione del community management: i local coach della Cooperativa Ippogrifo

Ippogrifo è una cooperativa sociale di tipo A che opera da più di vent’anni nel territorio della provincia di Sondrio, nella progettazione e gestione di servizi alla persona nei settori dell’educazione e della cura dei bambini, dei ragazzi e delle famiglie, dell’autonomia delle persone disabili e dell’inclusione dei migranti e degli adulti in difficoltà. Nel 2006-2008 si apre una fase di innovazione interna, in seguito ad un passaggio generazionale. Ippogrifo sceglie di dare avvio a nuovi progetti e servizi rivolti ad una domanda privata (la cooperativa fino al 2014 si occupava della progettazione e gestione di servizi esclusivamente in qualità di fornitore per la pubblica amministrazione), e di operare in servizi e settori non tradizionalmente sociali cercando di contaminare gli stessi attraverso una componente sociale. La cooperativa diventa quindi incubatore di progetti di imprenditorialità sociale, favoriti da un clima  e un ambiente lavorativo caratterizzato dall’ascolto e all’emersione dei talenti e delle aspirazioni dei lavoratori della cooperativa, e tramite dei dispositivi di ascolto della base sociale, sceglie di scommettere su alcuni cantieri di produzione. Nascono così: Strashare, un’azienda che si occupa di agricoltura sociale; Tiralistori, una libreria di comunità; Valfamily, un servizio collaborativo tra famiglie; SoCare, un centro multiprofessionale per la salute e il benessere della persona e Pastificio 1908, un pastificio che produce pasta senza glutine all’interno del Carcere.
Un’altra scommessa di Ippogrifo è stata la figura dei “local coach”, una declinazione di community manager che la cooperativa sta sperimentando, assieme al Comune di Tirano e alle cooperative sociali Ardesia, San Michele, Intrecci e ad una rete di partner pubblici e del privato sociale, all’interno del Bando promosso e finanziato da Fondazione Cariplo “Welfare in azione” con il progetto “Sbrighes-Prenditi la briga di…”. Il progetto ha l’obiettivo di promuovere lo sviluppo del territorio valtellinese innescando un processo di riattivazione della comunità, attraverso lo sviluppo di micro-progetti locali.

Cosa fanno i local coach: due modalità di approcciare il lavoro con la comunità di riferimento

M. – uno dei local coach di Ippogrifo – ci racconta che all’inizio del progetto si immaginavano di svolgere un ruolo più definito e lineare nel progettare nuovi servizi o attività per le comunità di riferimento. Soprattutto,  si aspettavano che il loro ruolo fosse da “protagonista” e leader di processo, come forse la loro formazione di progettisti e/o operatori sociali portava a pensare.

Le comunità però non erano soggetti passivi, bensì organismi che proponevano le loro soluzioni.

“Bisogna tirarsi in dietro” – ci dice M., riflettendo sulla loro esperienza.  Il lavoro del local coach come community manager è per M. diventato più leggero, ovvero quello di creare e mantenere i legami nelle “comunità di progetto” (Manzini, 2018), perché anche in quelle più autonome e autogestite i processi non si formano spontaneamente, ma intenzionalmente e necessitano di essere curati. Per esempio è successo che, pensando alla riqualificazione di un parco giochi, le mamme abbiano invece proposto il progetto di un pedibus per bambini, a loro più utile: il local coach ha imparato che la soluzione ce l’aveva la comunità di beneficiari, non lui.

Lo spostamento radicale è stato quindi quello di concentrarsi dal prodotto al processo e di conseguenza quello dall’avere un ruolo prestabilito all’agire in base alle situazioni. Il local coach crea le occasioni o le coglie, se esistenti, sostiene la progettualità e l’organizzazione della comunità (temporanea o stabile) che vuole iniziare qualche nuova attività, favorisce legami e modi di lavorare assieme per rispondere al meglio ai bisogni espressi o latenti della stessa comunità. Si fa accompagnatore e co-progettista non per, ma all’interno e con la comunità che progetta.

“Non ci fermiamo lì, solo ad incontrare la gente per capire le loro esigenze e bisogni, ma facciamo lo step successivo, portiamo la comunità alla co-progettazione, per farli realizzare microprogetti.”

In parte diverso è il racconto di V. – referente per l’azione lavoro di Ippogrifo –  local coach che si occupa di far da ponte tra il mondo del lavoro, scuola e giovani. I referenti del mondo aziendale e gli stakeholder di settore – che sono un altro ecosistema, pur nello stesso territorio –  rispondono in modo diverso e richiedono più proattività e capacità di controproposta, o di adattamento a servizi o progettualità predefinite (ad esempio l’alternanza scuola-lavoro). Più difficilmente si aprono alla coprogettazione – che resta una sfida comunque. Contano di più, in questo caso la capacità negoziale (un po’ più “commerciale”, apparentemente) e progettuale tradizionale, perché nel settore le richieste sono più indirizzate alla logica domanda/offerta di servizi che a proporre  uno scambio collaborativo – è poi difficile mettere insieme più aziende, più facile trattare singolarmente.

Tuttavia, gestire questi progetti come local coach vuol dire non rinunciare a rilanciare su sfide, con strumenti che stimolino l’attivazione di comunità, come le “call for ideas“.

Quanto incide il local coach sulle idee che si producono?


A differenza del progettista interno all’organizzazione, il local coach di Ippogrifo non preconfeziona un progetto per poi portarlo alla comunità: progetta con la comunità stessa: “Noi lanciamo il processo, non andiamo mai con una nostra idea, le facciamo emergere e le raccogliamo” – continua M.  E questo presuppone due cose: la prima è che si deve accettare una progettazione “aperta, continua”, basata su revisioni e aggiustamenti che si scoprono lavorando con la comunità. È il lavoro di chi fa bricolage con le risorse a disposizione ricombinandole man mano e scoprendo così quale può essere la direzione migliore (Weick; Hambleton, De Certeau). La seconda è che serve essere dotati non di risposte, bensì di strumenti di co-progettazione, come una cassetta degli attrezzi utili all’innesco di processi, azioni e riflessioni. L’aspetto interessante del loro lavoro diventa la capacità di conoscere e attivare l’ecosistema affinché produca le proprie risposte. Il local coach non ha una mappa a disposizione su cui muoversi, ma – come ci suggerisce Weick – una bussola con cui sapere dove si è e ritarare la direzione da prendere.

Anche V. ci racconta che ha trovato occasioni di progettazioni più aperte e condivise nel suo settore, seppur in modo diverso da M.. Un caso è stato quello di un rilancio di proposta ad un’azienda di autotrasporti che ha accettato di rivedere la sua richiesta di manodopera scoprendo un nuovo bisogno: rivedere la piattaforma gestionale interna. Grazie ad una call, alcuni giovani informatici stanno ora lavorando alla sua progettazione.

Per quanto i progetti possano essere a volte di dimensione micro (da un evento da organizzare, al taglio dell’erba), il local coach impara a “pensare in grande”, uscendo dagli schemi in cui il progetto era strutturato per azioni previste. È l’impatto che cambia: la co-progettazione può partire da una dimensione progettuale piccola, ma ha un “effetto domino” che porta ad estendere la progettualità come capacità. M. ci ricorda che essere local coach è un “osare in termini non utopici”, proprio grazie al fatto che è la comunità che progetta e produce innovazione.

Quanto, quando e come intervenire, dunque? 


La risposta è: dipende. Sono le interazioni specifiche legate all’occasione, al contesto e ai bisogni della comunità a suggerirlo – il lavoro di local coach è una pratica che si impara facendo e riflettendo su cosa è opportuno “fare” ed “essere” di volta in volta”. M., ad esempio, che lavora più a contatto con comunità legate a famiglie, giovani o gruppi di cittadini, sottolinea che è opportuno differenziare i modi di leadership. Con i più giovani può servire serve una maggiore capacità di guida e qualche intervento diretto, mentre con gli adulti già consapevoli di bisogni si diventa più accompagnatori, registi di processi, suggeritori di strumenti di lavoro per trovare soluzioni (come nel caso delle mamme sopra citato).

Anche il tempo è una dimensione che fa riflettere un local coach: se all’inizio i processi hanno bisogno di un certo tipo di accompagnamento, in fase successiva forse – riflette M. – serve un ruolo più da “professionista tradizionale” per il mantenimento del progetto. È un’osservazione interessante, che ci fa capire come la co-progettazione non sia semplicemente un metodo opposto agli interventi più “direttivi”, ma semplicemente più attenta (sense-making) a capire collaborativamente cosa serve e in quale momento per trovare soluzioni a bisogni e valori espressi.

C’è, insomma, un tempo opportuno per accompagnare e uno per tirare le fila del processo, e un altro ancora per ancorare alcuni risultati e stabilizzarli: momenti che implicano modi diversi di praticare il community management e la leadership.  E questo incide, dice M. , su molti fronti, non da ultimo su quello del budget, perché lavorare accompagnando un progetto consente di capire su cosa è più utile investire di volta in volta.

Come capita nelle organizzazioni aperte, è la comunità che opera, progetta e suggerisce i tempi, non il suo leader, che spesso anzi viene sorpreso dalla risposte prodotte. 
Le due modalità di M. e di V. costituiscono una sorta di due “estremi ideali”, in mezzo ai quali vi sono gradi diversi di azione. In un caso, il local coach si “toglie il vestito del supereroe”, e cerca la via migliore per ricalibrarsi di occasione in occasione (questa è la perizia che serve per collaborare bene).

Nell’altro caso, diventa più importante avere capacità di leadership più forti, essere attrattivi, anche se V. aggiunge che il local coach “deve comunque saper mediare, cogliere l’interesse di chi sta parlando, capire il punto su cui poter convergere e costruire qualcosa assieme”.

C’è una cosa che accomuna le due modalità di community management: “Ci siamo resi conti che siamo tutti local coach, perché tutti costruiamo legami nel territorio”.

La competenza personale più “carismatica” del leader, quindi, tende ad essere di fatto superata per entrambi gli estremi e a trasformarsi nella capacità di “farsi promotore di sviluppo” e di occasioni sociali, interne ed esterne contemporaneamente.

La leadership come pratica riguarda molto di più dove, come e perché il lavoro della leadership è organizzato e svolto, che non chi offre la visione agli altri per svolgere il lavoro. .. la pratica è inglobata nella situazione in cui ha luogo.

(J. Raelin, 2010)

Apprendere facendo e imparare dagli effetti: una “learning leadership”


Uno dei principali effetti del fare il local coach è che si impara ad imparare: lavorando “senza niente di pronto” (ma dotati di strumenti ed attenzione), in costante attesa di scoperte ed ideazioni che variano da comunità a comunità, il local coach è chiamato ad affinare strumenti, capacità di osservazione e scoperta collettiva dei bisogni. Di volta in volta, deve saper adattare il suo agire alla situazione, usando una leadership non direttiva, ma in grado di capacitare la comunità.

È una figura che produce anche contaminazione: il suo stare “tra” il dentro e il fuori dell’organizzazione, crea stimoli per rivedere i processi progettuali e organizzativi, come una maggiore collaborazione fra aree usualmente separate – per questo è utile, ci raccontano, non lavorare da soli.  Allo stesso tempo, però, queste pratiche incontrano anche diffidenze con cui doversi confrontare, soprattutto con stakeholder più istituzionali come le pubbliche amministrazioni (poco abituate a pensare a progetti aperti che si autogestiscono), ma anche con le comunità già costituite (con ruoli di leadership interni) e/o con singoli da ingaggiare (cui si chiede un impegno che abbisogna di motivazioni). 
Un’altra lezione che impariamo dal loro lavoro  è che per produrre innovazione serve un un investimento di tempo, necessario a far emergere bisogni, aspirazioni e soluzioni non dati per scontati.

Il local coach scuote i modi tradizionali di lavorare assieme, anche rispetto ai partner di progetto e spinge verso forme di innovazione aperta: “Lavorare come local coach ha abbattuto diffidenze che potevano esserci in fase iniziale e ha creato un modo di lavorare più integrato e più vero rispetto a quelli che sono i soliti partenariati (in cui anche nella parte operativa io faccio la mia, tu fai la tua e non ti dico tutti i servizi che ho, le strategie che ho) […] Anche la condivisione del fare direttamente è strumento essenziale, perché fa uscire dai modelli tradizionali di lavoro (l’équipe, le riunioni), e porta a snellimento dei processi. Si parte da alcune esperienze, non da luoghi e strumenti più formali, il che ci porta a doverci re-immaginare il nostro ruolo e ad allineare il nostro metodo di pensiero e di lavoro: ci permette di gestire i rapporti fra di noi, comprenderci in pochi secondi… nel laboratorio ci si scambia. Spesso siamo in coppia a fare il lancio con la comunità, poi ognuno segue lo sviluppo.”

È stato grazie al lavoro fatto con loro e alle loro pratiche che abbiamo avuto modo di ripensare agli strumenti di lavoro e agli approcci alla progettazione utili al community manager per come si sta delineando la loro figura professionale e alle ricadute organizzative che questo approccio comporta. Nel prossimo articolo parleremo delle sfide interessanti che questa figura pone al design organizzativo.

Breve bibliografia di riferimento

De certeau M., 2001, L’invenzione del quotidiano, trad. M. Baccianini, Edizioni Lavoro

Manzini E., 2018, Politiche del quotidiano, Edizioni di Comunità

Hambleton R. 2015, Leading the inclusive city. Place-based innovation for a bounded planet, Policy Press University of Bristol

Raelin J, 2010, Leadership as practice, Routledge

Weick K. E. (1997), Senso e significato nell’organizzazione. Alla ricerca delle ambiguità e delle contraddizioni nei processi organizzativi, Raffaello Cortina Editore, Milano.

A cura di: Giulia Cassani, Nico Cattapan, Francesca Battistoni

Pubblicato su: cheFare