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Innovazione trasformativa [1/2]

Dalle transizioni alle sfide per l’innovazione trasformativa

Il senso strategico, le pratiche e il portato in termini economici di prodotti e modelli che vanno sotto il titolo di “innovazione sociale” stanno avanzando da qualche anno il bisogno di virare verso un modello più complesso e strutturale di cambiamento. L’aria di famiglia che ci rimandano termini quali “transizione” (ecologica, digitale), giustizia sociale, inclusione, sostenibilità, lavoro, invecchiamento demografico, problemi energetici, nuovi stili di vita, etc. si è radicata nel pensiero delle politiche (anche se non necessariamente nei programmi e negli strumenti di policy) come campi tematici e di problemi che interrogano il senso della stessa innovazione sociale nonché degli attori deputati a produrla. 

Si tratta non tanto e non solo di nuovi ambiti o settori di policy, ma di nuove modalità di approcciare ciò che fa problema per la società e che esige di essere inquadrato diversamente sia nella lettura che nella elaborazione di soluzioni. 

Le transizioni aspettano tuttavia che sia fatta ancora chiarezza su come possano essere incorporate nelle politiche territoriali, nello sviluppo delle organizzazioni – pubbliche o private -, negli assetti delle istituzioni e negli stili di vita delle persone, nonché su come possano essere messe a terra concretamente nell’analisi dei bisogni, delle opportunità e delle strategie per realizzarli. Una cosa è comunque certa: si va verso un bisogno di incidere non sulla revisione di modelli e sistemi finora esistenti ma sulla loro trasformazione, resa urgente da evidenze globali. 

Parallelamente, a questi bisogni trasformativi si associano nuove prospettive direzionali, come l’economia sociale (da cui l’Action Plan europeo) o il tema del ritorno dello Stato come innovatore o investitore; ma anche su questo fronte resta da comprendere quali definizioni e compiti attribuire a tali direzionalità e quali ricadute implicano.

L’economia sociale potrà essere intesa in senso ristretto di politica di settore, con interventi redistributivi e normativi, o più ampiamente come modello di sviluppo alternativo/complementare alla competizione pura di mercato, dunque come modalità pervasiva di fare economia con attenzione ai bisogni della società?

E come potrà agire lo Stato innovatore – espressione del recente ritorno dello Stato quale attore determinante nella soluzione di problemi collettivi e garante di un nuovo patto sociale – in qualità di regista di missioni (M. Mazzuccato) che coinvolgono più settori su problematiche di cambiamento trasversali richiesti dalle transizioni?

Quali prospettive per la ricomposizione dei bisogni, delle ricadute sociali e quindi di un nuovo welfare?

Risulta comunque sempre più pervasiva la sensazione che gli strumenti e le direzionalità fino ad oggi ribaditi dall’innovazione sociale, come il cosiddetto secondo welfare, o il ruolo della comunità come controbilanciamento in termini di risorse e capacitazioni tra stato e mercato, risultino essere sperimentazioni “parziali” e da ritarare rispetto ad un quadro di sviluppo che si inserisce ad un livello più alto: il cambiamento dei sistemi socio-tecnici ed economici che costituiscono l’ossatura delle nostre società e dei modelli delle organizzazioni e istituzioni, a seguito di grandi sfide che l’umanità si sta dando come ambiziosi traguardi non ulteriormente rimandabili. 

Perché è importante che i diversi attori che concorrono a pensare, a progettare o a realizzare l’innovazione sociale si facciano carico di assumere questa nuova postura direzionale? 

Di base, per una ragione semplice: che le transizioni costituiranno sempre più la premessa e la condizione per nuovi modelli di sviluppo sociali, economici, culturali e di vita delle persone. Si tratta di capirle e di comprendere quali prospettive praticare per affrontarle.

Dalle sfide sociali alle sfide per la società: il cambiamento dei sistemi, non nei sistemi

La necessità di trasformare sistemi parte, come detto, da problemi di policy che implicano un cambiamento di paradigma nelle soluzioni a problemi e, prima ancora, nella capacità di “vedere” queste stesse questioni sociali, economiche, ambientali e culturali da una prospettiva diversa e interconnessa. A farlo, ci sono già alcuni programmi direzionali che hanno proposto di lavorare sulle cosiddette grand challenges, sfide che delineano non tanto soluzioni a problemi, quanto direzioni su cui reimpostare i sistemi di vita futuri.

Un esempio per tutti: gli Sdg’s di Agenda 2030, ma anche alcuni programmi europei, tra i quali, in senso teorico, avrebbe dovuto collocarsi anche il Next Generation Eu con le declinazioni nazionali solo molto parzialmente realizzate (più nelle intenzioni che nelle scelte effettive . A cascata, le grandi sfide si declinano poi in missioni specifiche – per stare sempre a M. Mazzucato – ovvero in sfide di lavoro più delineate e riferite a sistemi e/o territori precisi e tematiche definite.

Il presidio, quindi, delle sfide trasformative passa ai territori, ma non in senso spartitorio e distributivo, bensì di interconnessioni utili riferite a problemi e attori (dovremmo, a tal riguardo, non parlare di livelli di competenza degli enti, ma di co-programmazioni verticali). La caratteristica di queste grandi sfide per il futuro è di essere ampie, ambiziose, basate su impatti da raggiungere e soprattutto trasformative di sistemi socio-tecnici, cioè di sistemi che convogliano mezzi, produzioni, soluzioni tecniche, pratiche di vita, culture. 

Ciò detto, si comprende bene perché il primo cambiamento da promuovere stia allora nella capacità di collocare al livello opportuno la strategia da scegliere. Possiamo figurarcelo a tre livelli di programmazione strategica su cui operano le politiche, ma anche i piani di sviluppo di organizzazioni e istituzioni.

  1. Un livello tattico e gestionale di azione all’interno di sistemi dati, dove si interviene per aggiustamento e correzione di singole parti ed elementi, per riadattarle.
  2. Un livello strategico di sistema riferito al cambiamento all’interno dei sistemi dati, quindi mantenendo finalità e quadri di riferimento pur lavorando su più nodi e connessioni di sistema per stimolare nuove risposte su potenzialità inespresse
  3. Un livello trasformativo di sistema, dove si interviene su nuove finalità volte a cambiare i quadri di riferimento e, in base a questi, si riassettano i nodi del sistema esistente e nuovi nodi eventuali.

I primi due livelli1 coincidono sostanzialmente con il consolidare modalità esistenti per leggere problemi, ideare soluzioni e implementarle. Il terzo livello, invece, affronta una questione diversa: posti nuovi problemi, anche nella forma dell’urgenza, di ampio raggio, va riletto ciò che fa problema e soprattutto spostato ad un livello di trasformazione per poter identificare soluzioni adeguate. Le soluzioni, poi, possono seguire l’arte combinatoria di competenze, progetti, servizi esistenti o implementarne di nuovi. 

Proviamo a spiegarlo meglio con un esempio prendendo la sfida del lavoro per le nuove generazioni – che interconnette due problemi sociali di fatto: la questione del lavoro e quella dei giovani e della loro collocazione nei sistemi economico-sociali. A seconda di dove decidiamo di collocare il problema – e quindi di come vogliamo trattarlo, ossia come correzione del sistema attuale, come riformulazione di strategie nel sistema o alla luce di trasformazioni ampie su cui operare cambiamenti strutturali – troveremo risposte diverse.  

  • Al livello tattico: considerato il problema singolarmente, rispondiamo con soluzioni univoche come interventi redistributivi (i redditi di cittadinanza), o normativi come l’accesso ad alcuni bandi con quota riservata, o fiscali, come le detassazioni per i datori di lavoro, o particolari incentivi per l’impresa dei giovani, etc.
  • A livello strategico: consideriamo il “lavoro” rispetto ad un sistema ampio e complessivo di elementi che lo determinano (come cause o effetti circolari), e applichiamo politiche interconnesse, ad esempio per incrementare i settori produttivi e quindi i posti di lavoro, per incidere sull’efficientamento del matching domanda-offerta, per rivedere i sistemi pensionistici e i turn-over, per costruire un welfare di supporto alle donne in modo da favorirne l’impiego, etc.. Operiamo, in definitiva, su politiche e progettualità diverse, ma che incidono sugli effetti prodotti in termini di lavoro per le nuove generazioni.
  • A livello trasformativo: consideriamo quali potranno essere gli effetti sul lungo termine di diverse transizioni e sfide ampie, per capire le ricadute sul tema lavoro. Dato che la transizione ecologica (nuove filiere produttive) e la transizione digitale (automazione e sostituzione con AI) modificheranno sostanzialmente il senso complessivo del lavoro per ciò che finora ha significato come conservazione del posto a vita e relative tenute sociali, dovremo considerare scenari di cambiamenti e opportune direzionalità per affrontarli. Ad esempio, una nuova direzionalità potrà essere “non salvaguardare il lavoro, ma i lavoratori”, come nuovo frame per riprogettare una flessibilità sostenibile su sicurezze, il re-skill continuo come leva per capacitare il cambio di impiego, sussidi nei periodi di transizione etc.

Una nota: siccome la rilettura dei problemi è di per sé sperimentale, sperimentali saranno anche le soluzioni che ne derivano. Laddove un cambiamento strategico o tattico può rimanere all’interno della cornice di apprendimenti già consolidati – per quanto non certi – il livello trasformativo implica un ragionare per scenari di probabilità e di possibilità, e, di conseguenza, richiede delle attitudini esecutive cui spesso organizzazioni, istituzioni e persone non sono pronte. 

Come si vede, il livello trasformativo dà una risposta a come affrontare una transizione, cioè il passaggio da un sistema da un altro. Ciò spiega anche il perché le sfide trasformative siano da collegare non tanto ai cosiddetti “bisogni sociali” dell’innovazione sociale (già più ampio del solo “disagio” e indirizzati alla capacitazione e collaborazione di diversi soggetti), ma alle “societal challenges”, ovvero temi di cambiamento per l’intero assetto socio-economico e culturale  per un mondo che non regge più alle strutture di sviluppo che finora l’hanno permeato.

Il sociale come fattore pervasivo e la cross-settorialità

Se assumiamo questo approccio, sarà facile capire che il “sociale” non è più riferito alla domanda specifica di un gruppo o classe sociale con determinati problemi, ma più complessivamente a ciò che riguarda l’intera società2. Cambiare i sistemi implica due operazioni a fondamento:

  1. coinvolgere più settori con relative competenze, coordinandoli verso una sfida trasformativa come direzionalità di trasformazione di azioni diverse;
  2. lavorare non solo sul fronte dei servizi o dei modelli collaborativi, ma più estesamente su quello dei sistemi produttivi, dei sistemi sociali di vita, sulla ricomposizione di bisogni, della cultura come predisposizione di sistemi di senso accettabili e accettati, delle pratiche quotidiane di vita delle persone e della loro diffusione. Quella che abbiamo definito un’arte combinatoria.

La cross-settorialità non è solo necessaria per aggregare le competenze di diversi attori e istituzioni nel costruire le risposte a sfide trasformative, ma è anche la premessa per poter ricomporre la domanda di trasformazione, che di per sé non è (spesso, ancora) formalmente costituita ed esplicita. Non vi è una richiesta di rivedere le politiche sulla conciliazione vita-lavoro quando ci si occupa di mobilità per renderla sostenibile in un territorio, così come non vi è una domanda esplicita di soluzioni provenienti dal digitale, dall’AI o dalla progettazione del verde urbano, quando si affrontano i problemi di vulnerabilità degli anziani e la qualità della loro vita in città; allo stesso modo, non vi è la domanda esplicita di nuove politiche e servizi di prossimità nella implementazione di una comunità energetica, ma solo di soluzioni tecniche ed economiche di sostenibilità.

Le sfide trasformative richiedono quindi che vi sia l’investimento nel costruire questa domanda, investimento che sarà possibile non con la classica aggregazione di domanda per ottimizzare un’offerta (cosa che può funzionare ancora in un’ottica di cambiamento strategico nei sistemi), ma con la rivisitazione e creazione della domanda, possibile se e quando vi è la partecipazione di diversi attori che presidiano settori, risorse e pratiche diverse, da coalizzare sulla stessa direzionalità di cambiamento. 

Chi è deputato a governare una sfida trasformativa? Dipende dalla sfida stessa, ma il punto è essere capaci di progettare coalizioni adeguate di attori utili a rispondere alle sfide, su regie ben precise che guidano le trasformazioni e ricompongono, oltre alla domanda, anche le risorse necessarie. Di fatto, non sono solo attori del Pubblico a farlo – si pensi alle Fondazioni, o alle reti consolidate nei territori, o ad alcune agenzie pubbliche che stanno re-immaginando il loro ruolo come attori di sviluppo locale o regionale su transizioni3. Il punto darà la capacità che avranno queste coalizioni di uscire da reti consolidate, tendenzialmente valoriali e di appartenenza e di passare dal must della collaborazione a quello più direzionale della programmazione di politiche trasformative. 

Cosa serve per affrontare sfide trasformative

L’innovazione sociale ci ha abituati a pensare e progettare una serie di strumenti, luoghi, metodi per praticarla: ecosistemi di innovazione aperta dove scambiare competenze e risorse tra attori non omogenei tra di loro, organizzazioni ibride che integrano un fare imprenditoriale con scopi sociali e vocazionali, la rivalorizzazione di luoghi e territori come dimensioni di interazioni di senso sulla ricombinazione dei nuovi bisogni, il fare delle comunità intraprendenti e della cosiddetta società civile, la modalità di diverse reti e tipologie di alleanze trasversali e più aperte e su scopo, etc.  Per quanto si tratti di vie e modalità spesso soggette al fallimento o alla non piena realizzazione, queste costituiscono  un buon e necessario punto di partenza per un’innovazione effettivamente trasformativa, ma forse serve aggiungere ulteriori espedienti. 

Cosa abbiamo appreso dalle esperienze degli ultimi due decenni dedicati all’innovazione sociale? Quali fattori sembrano ora mancare per passare da un cambiamento sistemico ad un cambiamento di sistemi?

Una ipotesi di risposta su può cercare in quell’elemento di governo di processi sociali ampi, difficili e conflittuali che è rappresentato dalle istituzioni. L’approccio dell’innovazione sociale è stato fondamentale per abilitare un’attivazione e una conseguente capacitazione di attori cosiddetti “dal basso” con l’aspirazione a collaborare tra di loro o addirittura di cooperare su fini comuni. Le sfide trasformative, però, hanno bisogno di solide strutture di visione, prima, poi abilitanti e facilitanti, altrettanto ampie e dotate di potere (tema spesso eluso dai discorsi sulle pratiche collaborative), cioè in grado di costruire nuove domande di trasformazioni, intercettare risorse, strumenti, attori e rilanciare azioni coordinate di scopo verso obiettivi di alta portata per la trasformazione dei sistemi socio-tecnici.

Le singole organizzazioni spesso non sono attrezzate a questi obiettivi, ed è probabilmente lecito che non lo siano in quanto non dotate del potere di ri-direzionare politiche e di disporre di risorse adeguate. Altrettanto l’idea di nuovi patti sociali (un ritorno all’origine contrattualistica del Pubblico, cui stiamo assistendo), pur enunciano un bisogno reale, sembra cadere a volte dall’alto come speranza di una rigenerazione di intenti via accordi che hanno bisogno però di strutture per concretizzarsi. 

Le buone istituzioni dovrebbero invece supplire a questa funzione: riprendersi cioè, rivendicandolo, il senso dell’aggregazione, dell’indirizzamento e dell’intermediazione, spesso abbandonato da alcune logiche di economie collaborative e costruire sfide trasformative nonché coalizioni in grado di implementarle. 

Se le sfide trasformative sono sfide per la società, è la società stessa che richiede la presenza di processi istituenti (R. Esposito) per far fronte ai bisogni, ai conflitti che l’attraversano e alla gestione del potere che deve essere indirizzato verso capacità di governo. L’alternativa starebbe in una dispersione in piccole pratiche sperimentali di rottura sì, ma atomizzate e in una ricaduta di responsabilità su comunità civili costruite, non in grado però di operare alla scala della trasformazione di sistemi. 

Le “buone istituzioni” dovrebbero essere aperte (più processuali che difensive), capaci di apprendere, dotate di capacità e potere al punto da innescare direzionalità su scopo, guidare e governare processi di trasformazioni sul lungo periodo, contenendo conflitti e risolvendo problemi di tenuta che le diverse parti (organizzazioni pubbliche, del privato sociale, for profit, la società civile) avrebbero diversamente difficoltà a gestire. 

Non ci riferiamo a istituzioni solo pubbliche: la sfida del trasformativo probabilmente sarà connessa a quelle istituzioni intermedie della società che operano a diverso titolo aggregando organizzazioni, gestendo interessi e mediazioni nonché creando culture di indirizzo, e che saranno chiamate a ripensarsi per gestire il consolidamento e la tenuta con l’innovazione per la trasformazione.


Breve Bibliografia

R. Esposito, Istituzione, Il Mulino 2021

W. F. Geels, Transformative innovation and socio-technical transitions to address Grand Challenges, European Commission working paper 2020
M. Mazzucato, Lo stato innovatore, Laterza, 2015

H. Mintzberg, The strategy concept I: five Ps for strategy,California Management Review n. 30, 1987

P. Venturi, F. Zandonai, Neomutualismo. Ridisegnare dal basso competitività e welfare, Egea, 2022

A cura di: Francesca Battistoni, Nico Cattapan 

Pubblicato su: cheFare